
Come si racconta una maratona in una manciata di caratteri?
È il 18 aprile 2022.
Boston si sta svegliando, mentre in Italia è in pieno svolgimento la Pasquetta, più normale di quella dello scorso anno.
Per me è un giorno speciale, so che sarà memorabile, perché sono negli Stati Uniti e sto per correre la più antica maratona del mondo.
Sono le 7 e mi sto dirigendo alla fermata dei bus che dal centro città vanno verso Hopkinton, il paesino che, da 126 edizioni, apre le danze.
O dove inizia la battaglia di questo gioco nato da una guerra.
Ho più di 28mila compagni, di ogni etnia, credo religioso, provengono da diversi meridiani, mangiano cose diverse dalle mie, sono buffi, hanno vestiti strambi, i volti sono sorridenti, allegri, i corpi VIVI.
Credevo di essere ridicola nei miei pantaloni lisi, una maglia scolorita buttata in valigia all’ultimo istante prima di chiudere casa e sulle spalle la copertina rubata in aereo. Invece qui sono tutti “conciati” per le feste: uomini con cuffia da signora, donne dentro ad accappatoi felpati, tute da lavoro, pigiami di pile. Chi più ne ha, più ne metta.
Fa molto freddo, i vestiti morbidi, abbondanti e ridicoli servono per proteggersi dalla temperatura e dal vento che soffia sul Massachusetts.
Nell’ora o poco più di viaggio, conosco tante persone.
C’è il dottore del New Mexico e la coppia di californiani con cui mi esibisco in piroette di inglese che definiscono “fluently”.
Che lingua parlano i runner? Dopo tante corse in giro per il mondo non so ancora rispondermi. Quello che so, ogni volta è così, è che è davvero prezioso confrontarmi con perfetti sconosciuti, raccontare una parte di me, ascoltare una parte di loro, grazie ad una passione che ci accomuna, che azzera qualsiasi limite, scioglie i pregiudizi.
Runners know runners.
Scendiamo al Villaggio dell’Atleta e per circa due ore resto a respirare il clima della gara, fatto di musica, esseri umani emozionati, staff che si occupa della perfetta gestione della manifestazione.
La folla si muove e capisco che la mia griglia è finalmente aperta. “Good luck”, mi augura la ragazza che cammina vicino a me, è dolcissima, e le rispondo con “You too girl”, dentro un sorriso.
Mancano dieci minuti alle 11. Il tempo esplode. 3, 2, 1. Boom!
Sto piangendo? Sto ridendo? Non lo so, non mi frega, sfrego la strada con i primi passi della parte finale di un viaggio potentissimo.
So solo che le mie gambe danzano libere sulle strade di paesini caratteristici verso Boston.
Ho studiato il percorso come una poesia.
All’inizio, ho deciso, lascio andare le gambe, mi concedo alla velocità, perché dopo ci sarà qualche ostica salita.
Mi sento dentro un fiume in piena: migliaia di persone davanti, dietro, ai lati, che corrono come me, i lati delle strade sono altre persone che tifano, urlano, esultano.
La vera anima della maratona di Boston è il caloroso tifo delle persone, dicevano. Non avete idea cosa siano musica, trombette, barbecue, ristori improvvisati, cartelloni di ogni genere.
Ogni runner è accolto come fosse un amico che torna a casa dopo un lungo viaggio.
Da queste parti la maratona è religione, e gli ultimi due anni è mancata come l’aria, questa folla che corre.
Poco prima del 20 km inizia il leggendario Wellesley Scream Tunnel, un tratto dove incontri centinaia di studentesse del Wellesley College che esibiscono cartelli con parole provocanti, provano a baciarti e sono lì per fare più chiasso che possono.
Al km 33, la mia media è ancora sotto i 5′ al km, tutto fila liscio e mi sento bene. Quando mi accorgo che l’adrenalina ancora mi sta scorrendo dentro alle vene, sale la consapevolezza che adesso, a 9mila metri dalla fine, inizia questa durissima maratona.
C’è quella terribile salita spacca gambe, cuore e ritmo.
Inizio ad avere qualche problema alla pancia e mi si spezza l’unghia dell’alluce destro, dalla base alla punta. Soffoco una imprecazione.
Basta godere del momento, Claudina, adesso bisogna stringere i denti!
Un ragazzo mi porge una bandierina a stelle e strisce degli USA, è il 37km, ho bisogno di tutta la fortuna che trovo in giro.
Ecco la crisi. Le gambe non girano più. Il dolore dall’unghia del piede mi rimbomba in testa, me la spacca, ma sono a Boston, sto correndo la mia 4° Major, sto facendo un gran tempo e non vedo l’ora di piangere sotto quel gonfiabile che da laggiù sembra sempre più vicino, sempre più vicino, arrivoooo…. Copley Square, ovunque su di me sento le urla dei tifosi, il microfono dello speaker, il boato della passione di questa città, che solo se la provi ne capisci la magia, che ti trasforma in una favola dentro una pagina di storia.
Volto l’angolo, il piede brucia e brucio nell’anima, gli angoli della bocca sanno di sale, gli occhi si stanno riempiendo di gioia liquida, il traguardo è a distanza di uno schiocco di dita.
Per 195mt non sento più niente.
L’emozione più potente e vera del mondo è quella più semplice.
Vedo il mio volto in quello degli altri… mi riconosco negli sconosciuti che fanno con me gli ultimi passi.
Il cuore che mi sta traboccando di gioia: ce l’ho fatta, sono di nuovo una finisher, sotto le 4 ore, sotto le 3 ore e 40, in 3 ore e 37 precisamente.
Piango, è sempre così. Sono una felicità dannata.
I volti sorridono, siamo pura allegria, i nostri corpi sono VIVI.
Ecco, una maratona in una manciata di caratteri si racconta così.
Grazie Boston!
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