
Ho cominciato a correre, sul serio, da un paio d’anni. Ho deciso di cimentarmi e allenarmi regolarmente per la pratica del running forse invogliato, come molti, dalla asfissiante stretta pandemica del 2020: mesi interi trascorsi barricati in casa, col respiro che spesso mancava proprio nell’ambiente più intimo, quello domestico, e – paradossalmente – l’organismo a reclamare l’esercizio atletico che consentisse ai polmoni di immagazzinare quanto più ossigeno possibile.
Forse è bene che lo ammetta sin da subito: il Covid-19, un dramma planetario che ha messo in ginocchio economie ed equilibri sociali in molte delle più avanzate realtà nazionali, ha invece nel mio caso tenuto in piedi lo slancio, a quel tempo ancora solo accennato, verso il podismo e la ricerca di qualche appagante emozione agonistica.
Correvano difatti – ancora lo ricordo – i primi giorni del mese di marzo 2020 e, da corridore della domenica, mi ero già iscritto da un po’ alla “mezza” Roma-Ostia in programma per l’8 marzo e alla maratona della capitale, da corrersi soltanto tre settimane più tardi, il 29.
Io, a correre “mezza” e maratona separate da venti giorni soltanto, quando a malapena nei mesi precedenti avevo messo nelle gambe allenamenti poco regolari e competizioni rionali per distanze che mai avevano superato i dieci-quindici kilometri: insomma, un autentico sprovveduto.
Eppure, ecco il Covid: come dicevo, la percezione costante d’asfissìa, aria che mancava dappertutto, ricerca spasmodica di riserve d’ossigeno, ma gare – una per una – tutte annullate.
Da lì, manco a farlo apposta, la mia “risalita”: probabilmente, se tutto fosse andato secondo norma e le competizioni si fossero svolte regolarmente, a fine marzo 2020 avrei difatti appeso le scarpette – ancora neanche rodate – al chiodo; dopo aver concluso tra mille difficoltà la “mezza” ed essermi ritirato ignobilmente al temibile “trentesimo” della maratona, mi sarei ritenuto poco adatto a quel genere di sforzo e avrei preferito ripiegare sul solito calcetto, rischiando inesorabilmente di cadere pure nella pericolosissima trappola del padel che, con le prime aperture post-pandemiche, sarebbe diventato ambìto almeno quanto lievito e farina sotto lockdown.
Invece lo stop obbligato e i pensieri a rincorrersi: il mio studio chiuso; clienti con cui confrontarsi soltanto “da remoto”; bambini come zombie, in giro per casa o in videochat con maestre pazienti ma sfinite; file interminabili ai supermercati; strade vuote.
E lungo quelle strade vuote, che a Roma diventavano distese sterminate e desolatamente silenziose, cominciavano a fiorire “zone franche”, eremi in cui, a debita distanza l’uno dall’altro, dapprima pochi temerari, poi numerosi impavidi, si allenavano in compagnia dei loro soli smartwatch, mentre una vecchina neppure troppo avanti negli anni dal balcone invocava l’intervento di una qualche autorità – terrena o ultraterrena – per far cessare quella scriteriata e rischiosissima pratica ginnica.
Arrivava, tra alti e bassi, l’estate: riprendevo ad allenarmi con regolarità, ma senza troppo criterio né costrutto; c’era maggiore libertà ma in parte ne facevo le spese, poiché mi vedevo sopravanzare da chi, a differenza del sottoscritto, aveva fatto orecchie da mercante rispetto alle caustiche invettive della vecchina. E dopo tante sonore bastonate, subite nei più svariati e improbabili contesti, la scelta della strada giusta: al rientro dalle ferie, avrei individuato e mi sarei fatto seguire da un allenatore; la “seconda ondata” della pandemia, forse addirittura più sferzante della prima, intanto riconfinava nuovamente tutti nella cattività domestica e negli isterismi più tossici. Eppure nel mio caso, come sarà capitato a chiunque, nelle difficoltà, si sia trovato a scegliere con convinzione una via, l’impatto non risultava devastante, anzi.
Nel giro di pochi giorni avevo trovato la mia guida, là dove mai avrei sognato di poterla trovare: sul web! Distante, ma immediatamente in empatia con me; fulmineo scambio di mail, due convenevoli di presentazione e burocratici, e via!
Tabelle d’allenamento periodiche, scambi di battute e valutazioni via whatsapp, studio di ogni contributo ritenuto utile, progressi, passaggi a vuoto, silenzi, sorprese, crono, albe, notti, meteo, luci, ombre, respiro, battito, sonno, cibo, liquidi. Tutto.
E’ stato quello il momento: un ciclo, lungo quasi un anno, in totale assenza di competizioni agonistiche ma di approfondita analisi di me stesso, a farmi capire che in definitiva, la mia maratona era già dentro di me. Del resto, come meglio inquadrare la filosofia della “regina” se non con lo spirito che anima, un po’ scolpisce, il corpo e la mente di chi si prepara per correrla?
Partecipavo allora alla mia prima, e si era già arrivati – tra un rinvio e l’altro – al nuovo autunno: correvo Roma2021 in 3 ore e 22 minuti, sbalordendo me stesso, non tanto per l’entità del risultato, evidentemente modesto, quanto per l’immediata reazione sulla linea del traguardo che mi portava, stremato, a programmare i nuovi obiettivi; subito dopo i 42km e spicci corsi con poca lucidità, scarsissima sagacia strategica e mille doloretti variamente localizzati, il mio spirito – evidentemente forgiato con sapienza da chi mi aveva guidato durante i mesi precedenti – era già affamato di nuove distanze, di tabelle aggiornate, di ritmi su cui lavorare e muscoli da rafforzare.
Era, in buona sostanza, lo spirito del maratoneta che, al culmine di un percorso di vita appena concluso, si sentiva già attratto da una nuova sfida e dalla voglia di tornare su quella stessa distanza, ossia, su tutte le emozioni che, raccolte lungo la strada della preparazione, si sarebbero via via intersecate e congiunte per restituire un’altra sfida, una nuova “regina”.
Ed è stato esattamente così. Trascorsi sei mesi, che sono stati sufficienti al mondo per rinascere e ricadere, si è arrivati a marzo 2022: in mezzo tanti allenamenti, entusiasmanti competizioni, nuovi compagni d’avventura e la costante presenza della mia guida.
Il 27 del mese si sarebbe corsa di nuovo la maratona della capitale, la Rome Marathon 2022: a questo appuntamento sarei arrivato con una consapevolezza diversa, più matura e solida. Ho desiderato, anche per questo, poter effettuare una delle ultime sedute d’allenamento sotto lo sguardo diretto della mia guida; sotto gli occhi di chi interpreta le evoluzioni di centinaia di atleti e sa sviscerare le emozioni che animano altrettante individualità. Ho voluto che a Viareggio si compisse il penultimo dei passi che mi avrebbero condotto sulla linea dello start ai Fori Imperiali la domenica successiva, ritenendo quei passi – uno dopo l’altro – un nuovo percorso di vita compiuto con le mie forze, ma sorretto dalla sapienza gentile e puntuale di chi mi ha sempre correttamente indirizzato.
E sulla linea di partenza, domenica scorsa, in me, c’era tutto questo: al 1° km, sulla spianata del Circo Massimo, c’era la quiete di tante certezze acquisite; al 5°, sotto l’ombra della Piramide Cestia a Porta San Paolo, il senso di protezione dei mille suggerimenti ricevuti; al 10°, a Porta Portese, il tumultuoso risveglio domenicale delle energie più genuine mie e della mia magica città; al 15°, l’accogliente bonomia dell’Isola Tiberina. E così, via via: al 20°, ancora, i sospiri solenni della festività vaticana; al 21°, l’orgoglio della “mezza” conclusa proprio accanto al “mio” tribunale; al 30° le prime vere asperità lungo la “ricca” ascesa ai Parioli per poi scendere giù, col corpo più contratto ma l’animo più disteso, fino al Lungotevere e Piazza del Popolo, per farmi immortalare in mezzo ai turisti in uno scenario da favola che la città sembrava avere appositamente allestito lì, pronto ad aspettare il mio passaggio. E poi in picchiata, lungo le vie del centro e Piazza Navona, per sbucare – protetti da ali di folla – sotto l’Altare della Patria e, a braccia levate, tagliare il traguardo.
Questa volta al termine di un nuovo percorso di vita, che ho probabilmente portato a compimento con addosso qualche aggiunta: le spalle più larghe, la consapevolezza della difficoltà, la fiducia in ciò che s’è costruito e la percezione della necessità di un valido approccio tattico; ma anche qualcosa in meno: sicuramente gli 8 minuti che ho limato al crono a sei mesi dall’esordio, come pure i tanti timori dissolti o saputi gestire; e con almeno due certezze, immutate e immutabili: ossia la fiducia in me stesso e quella nella mia preziosa guida che – ora posso dirlo apertamente – altri non è se non il grande mister, Massimo Santucci.
di Antonio