I 100km del Passatore di Serena

Serena Ricci con la medaglia dei 100km del Passatore

“E questo cielo e queste nuvole”*

Manco ancora di lucidità in merito alla mia 100 km del Passatore. In questo momento, dopo una settimana, se provo a scavare non ricordo nemmeno il perché decisi di salpare per questo viaggio. Ma non credo debba esserci sempre un perché: a volte basta la curiosità per spingerci verso nuovi territori e, forse, è partito tutto proprio così.
Una gara mitica della quale ho cominciato a sentir parlare ancora prima di cominciare a correre e, quindi, figuriamoci se avessi idea, all’epoca, di cosa significasse farlo per 100 km. Nemmeno avevo idea, la prima volta che ne sentii parlare, che, un giorno, avrei cominciato a correre.
Poi è successo.
La corsa è entrata per caso nella mia vita e km dopo km, maratona dopo maratona, quel nome mitico riaffiorava: il Passatore.
E, per farla breve, avevo ragione ad essere curiosa.
Il Passatore non è affatto una questione di km: è il regalarsi un’esperienza che, ve lo dico subito, non riuscirò a descrivervi. 
Ho fatto diverse maratone, anche e soprattutto in giro per l’Europa, ma non ricordo di aver trovato mai, nemmeno nelle calorose maratone dell’Est, un clima nemmeno lontanamente paragonabile a quello che si ha per questi 100 km che, magia nella magia, finiscono per scorrere con una facilità che non mi sarei mai sognata.
Adesso capisco tutto.
Capisco chi partecipa a questa gara innumerevoli volte, chi alle due di notte fa scendere i bambini in strada, chi addobba la casa con gli striscioni, chi prepara la griglia, chi balla per strada, chi concede il suo tempo per i tantissimi ristori, chi è lì a metterti la medaglia al collo alle 4 di mattina.
Capisco tutti.
E capisco che la forza di questa gara così indescrivibile sta proprio nel fatto che ognuno sa di essere un tassello fondamentale di una incredibile, enorme e lunghissima festa che parte da Firenze alle 15 di un caldissimo sabato e arriva a Faenza in una domenica mattina freschina con, in mezzo, una notte gelida e stellata. 
Ho vissuto questa festa, perché non mi viene proprio di chiamarla gara, con tutte le fortune che possono capitare: preparazione filata liscia, alimentazione risultata perfetta, clima invidiabile, abbigliamento indovinato, un assistente in bici che chiunque può solo sognarselo. Mi sono limitata ad eseguire quel che Massimo mi aveva suggerito: parto non troppo brillante, ma nemmeno troppo sotto ritmo, corro fino a vetta Tre Croci con molta calma, ma correndo sempre, affronto la discesa verso Borgo San Lorenzo senza frenare e senza spingere, comincio la salita che porterà a La Colla con tranquillità, alternando qualche minuto a passo e sfruttandolo nei momenti in cui devo mangiare qualcosa di solido. 
Arrivo a La Colla, dopo essermi messa una termica a maniche corte al 42° km, che ancora non è buio e questo mi evita il grande freddo.
Comincio la discesa con la stessa filosofia che mi ha fatto percorrere la precedente dopo Vetta Le Croci.
A Casaglia indosso un leggero guscio e la luce e via avanti verso Marradi, che si trova circa al 65° km, dove tutti dicono inizi il Passatore.
Un po’ lungo come avvicinamento, sì.
Affronto qualche crisi e la supero: come sempre accade nella corsa.
Ad aiutarmi un cielo stellato che ricorderò per tutta la vita, un amico in bici al mio fianco e interi paesi scesi in strada, come dicevo, proprio perché stava passando il Passatore. (E pure queste due cose le ricorderò per tutta la vita.) Tutto questo lì insieme a farti sentire unica e fortunata. 
Una decina di km prima di Brisighella ho paura di sentirmi male.
Tutto comincia ad avere lo stesso tremendo sapore.
Agguanto del pane, ma sa di gel e barrette.
Dico basta. Non mangio più.
Chi è lì con me mi obbliga. Non se ne parla. Senza mangiare addio Piazza del Popolo. 
Mangio una barretta in più riprese e ricordo di aver pensato: cavolo dura di più questa barretta dei km che cominciano, pure loro, a non passare più. 
Alla fine vedo la rotonda di Faenza.
Finalmente.
Ma non era la rotonda di Faenza. 
Disappunto e sgomento. 
Guardo le stelle, guardo i miei piedi, ascolto della tremenda musica uscire dalle casse montate su alcune bici, vorrei gridare loro che non è proprio il momento per quella robaccia, guardo chi mi supera, guardo chi supero, non penso a niente.
Poi la rotonda arriva per davvero e questo significa che mancano 3 km alla fine di questo viaggio cominciato non a Firenze, ma tanti mesi fa. 
Sono 3 km abbastanza lunghi, nei quali rifletto molto sulla fortuna che ho avuto a essere lì a provare quella fatica mai provata e poi, sì, comincio a pensare anche che ce la sto facendo, che questa cosa che ho sempre puntato, ma vista più grande di me, è, adesso, nelle mie gambe.

Poco prima delle 4 arrivo in una piazza del Popolo piena di gente. 
Non posso crederci. 
Tutto questo calore fino all’ultimo secondo. 
Ma come hanno fatto? 

Concludo dicendo soltanto un’ultima cosa perché ho parlato di fortuna e bellezza e cose simili, ma ci tengo molto a dire che dobbiamo essere noi a metterci nella condizione di vivere una gara così. Di poterci godere lo scorrere dei km e il cielo sopra di noi. Di sentirci stanchi e appagati, ma non in fin di vita.
Per fare in modo che questo accada dobbiamo accettare di fare un percorso che è sportivo, prima di tutto, ma che si porta dietro molteplici cose: alimentazione, riposo, qualche rinuncia.
Riassumerei dicendo che ci vuole una certa disciplina.
Un termine che non amo particolarmente, ma che trovo adatto per lo sport (qualsiasi sport). Disciplina e una buona dose di pazienza, per fare in modo che una corsa non diventi uno strazio, non si porti dietro infortuni evitabili e ne rimanga soltanto l’immagine di un clima di festa, il sapore dolce di una notte stellata, il sorriso di chi ti mette la medaglia al collo ed il ricordo di un abbraccio dopo il traguardo.

Serena Ricci

*
“Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.”
Velimir Chlèbnikov
(Traduzione di Paolo Nori)

Leggi anche “Generale, queste cinque stelle – Tokyo 02/03/2025

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