…wie ein Kochtopf (…come una pentola che bolle)

aqua in pentola che bolle

La gazzetta di Clara ep. 67

La sveglia suona e le mie caviglie sono fredde. Sento la cucitura dei pantaloni del pigiama appena sopra il malleolo. La pelle pizzica, come se qualcosa sfregasse contro di me con troppa insistenza. È un contatto fastidioso e pesante. La mia pelle è più sensibile di una vela al primo soffio d’aria. Allo stesso tempo, sento anche il mio naso prudere. Le narici sembrano allargarsi per far spazio a filamenti ardenti. La temperatura della mia pelle cambia a una velocità impressionante: dal bollente al gelido, poi al tiepido, per tornare di nuovo al bollente. Mi sento già stanca, spossata e inerte. All’improvviso sento crescere dentro di me qualcosa, come un palloncino da festa: di quelli che si gonfiano in due soffi e poi, di colpo, lasciano uscire tutta l’aria con un sibilo. In questo istante, anziché fare quel rumore che faceva sempre ridere i bambini, il mio palloncino crea… uno starnuto. Alla fine del rumore, il mio corpo si contrae, si ritrae e riceve una breve scossa che brucia. Quel nanosecondo è passato, ma viene percepito ancora una volta come un intero viaggio attraverso la galassia.

Imperterrita, prendo la pastiglia per la terapia di iposensibilizzazione, il cortisone locale con spray nasale, e inizio la mia giornata con dei bei respiri profondi e con la mia routine. In giorni come questi ha un’importanza ancora più grande, e la eseguo con un amore maggiore del solito. La giornata si sviluppa come le onde del mare: imprevedibili. Talvolta con un ritmo costante, un rumore morbido e rinfrescante, e all’improvviso burrascoso e frenetico. Ancora una volta vengo attraversata da una scarica di calore improvvisa. Uno starnuto ogni venti secondi, per venti minuti di fila, senza sosta. Occhi, braccia e gambe sono pesanti. Il naso sembra staccarsi dal resto del viso. Mi sento in una bolla. Le parti del mio corpo non mi appartengono: sono dure, dolenti, distanti. I miei colleghi ripetono per l’ennesima volta “Gesundheit”, come un nastro che si riavvolge. Il mio corpo si vergogna, si ritrae, e la voce — vacillante, vinta, vuota — si spegne.

Dopo aver preso l’ennesimo fazzoletto, ormai umido e sottile che si disfa da solo in mille pezzi, come una foglia inzuppata, corro a lavarmi la faccia e a fare respiri profondi in corridoio. Anche quando si fa tutto il possibile per prevenire queste giornate, talvolta arrivano lo stesso. Penso al fatto che siano diminuite drasticamente e sorrido. Oggi però è una giornata dura, e vado a casa un po’ prima del solito.

acqua in una pentola che bolle

Arrivata, Marco mi guarda con sguardo perso. Con occhi doloranti e impotenti mi sussurra dolcemente: Du glühst wie ein Kochtopf (sei incandescente come una pentola che bolle). Non so se ridere o piangere. Corro in doccia e poi mi vesto per andare a correre. Per alcuni sarebbe un controsenso andare a sprigionare le ultime forze rimaste all’aria aperta. Per me, è la mia salvezza.

Giornate come queste ne ho già vissute tante. Forse troppe. Iniziano con uno starnuto e si concludono con un respiro: in mezzo, la speranza di una giornata più leggera. Conosco questi giorni da quando ero bambina.

Quando ho attacchi allergici, ci sono pensieri che mi danno conforto e mi aiutano:

  • Passano
  • Non sono da sola
  • Ci sono metodi che mi aiutano a stare meglio
  • Le allergie possono cambiare nel corso degli anni

L’ordine di importanza che do a queste frasi varia a seconda del mio stato d’animo e dell’intensità della fase allergica. In certi momenti vorrei sotterrarmi e basta. Questo e altri pensieri negativi sono pesanti, comprensibili, da accettare e trasformare. La mia testa, però, sa che ho una grande fortuna: in questi giorni non solo posso correre, ma anzi, mi fa bene.

Così sorrido, mi riposo e corro.

Clara

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