Fondista o velocista?

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Fondista o velocista? La nostra vera natura

di Massimo Santucci

Il corridore di estrazione amatoriale ama di solito le distanze del fondo.

Vuoi perché corre per dimagrire o per rilassarsi oppure per prendere parte a maratone nelle quali si tiene in forma fornendo tuttavia una prestazione di sostanza.

Difficile trovare corridori non più giovanissimi che si cimentino nelle distanze della velocità o del mezzofondo. Questo è probabilmente in parte da imputare alla mancata promozione dell’atletica nella sua essenza originale, ma anche alla scarsa attrattiva delle gare in pista.

In larga percentuale i corridori si preparano dunque per gare che vanno dalle competizioni su strada, fino a mezze, maratone, ultra e trail. Però, purtroppo, ciò che piace non risponde sempre alle attitudini.

Ci sono persone che sono geneticamente dei velocisti, ma che affrontano, giustamente, una maratona dietro l’altra.

In fondo perché non fare le distanze preferite? Tenendo buono questo concetto, bisogna tuttavia saper sviluppare un tipo di allenamento consono a quello che il nostro organismo ci offre.

Inutile soffocare di km un corridore ricco di fibre bianche fino a spegnere inutilmente la sua brillantezza o torturare di lavori anaerobici il runner dalle caratteristiche resistenti.

Bisogna saper partire da un’analisi profonda del soggetto per impostare al meglio il proprio allenamento.

In atleti dai soliti valori di soglia anaerobica ed in preparazione alle stesse distanze, si possono rendere necessarie programmazioni profondamente diverse.

Qui stanno i limiti di un allenamento tarato esclusivamente sulle velocità di riferimento, come spesso viene concepito dalle tabelle di preparazione standard, non considerando fibre, cuore ed anche “testa”.

Avendo una situazione chiara e ben definita è invece facile arrivare ad ottenere il meglio di sé, ma soprattutto è ben difficile compiere errori.

Strategia, studio e conoscenza sono le basi per avanzare verso l’eccellenza.

Credenze e fisiologia

C’è un detto storico nel mondo dell’atletica, ovvero che resistenti si può diventare, veloci si nasce.

Analizziamo innanzitutto le diverse fibre presenti nel muscolo, al fine di dimostrare questa massima.

Partiamo intanto specificando che una fibra muscolare è l‘unità morfologica del muscolo scheletrico.

Un muscolo è costituito da fascicoli, a loro volta costituiti da, appunto, fibre muscolari.

Grazie a queste, l’energia chimica derivante da reazioni metaboliche viene trasformata in energia meccanica, e quindi, in movimento.

Le fibre muscolari hanno lunghezza variabile dai 10 micrometri ai 100.

All’interno di ogni muscolo vi sono differenti tipi di fibre, classificate in base alla resistenza alla fatica e alla velocità di contrazione.

Le fibre veloci, o a contrazione rapida, hanno un diametro maggiore, colorito pallido, elevata capacità di contrazione raggiungendo il picco tra i 45 ed i 90 millisecondi, quindi scarsa resistenza alla fatica.

L’attività metabolica primaria è quella anaerobica, quindi in assenza di ossigeno.

Le fibre lente sono al contrario sottili, con colorito rosso, possiedono un’abbondante scorta di mioglobina e una bassa velocità di contrazione, tra i 100 e i 140 millisecondi. Hanno una buona-ottima resistenza alla fatica e ovviamente utilizzano un’attività prevalente di tipo aerobico.

Accanto a fibre puramente veloci, che sviluppano grande forza ma che si affaticano rapidamente (dette di tipo IIb), ci sono fibre con una velocità di contrazione leggermente inferiore ma dotate di maggior resistenza (dette di tipo IIA, o fibre intermedie).

Rappresentano una via di mezzo tra quelle veloci e quelle lente. Tale transizione può essere stimolata, in ambo i sensi, attraverso allenamenti specifici protratti e ripetuti nel tempo, per un tempo adeguatamente lungo.

Quindi, se è chiaro che le fibre lente non possono trasformarsi in fibre veloci, possiamo però dire che le fibre veloci (le fibre IIA), o veloci-ossidative a contrazione rapida, possono trasformarsi in resistenti con allenamenti specifici sulla potenza aerobica.

In particolare queste fibre, sono quelle che fanno la differenza nelle gare di mezzofondo e fondo (dai 5000 fino alla maratona). Ne sono fortemente dotati i kenioti e gli etiopi.

Da aggiungere inoltre che in mancanza di un allenamento specifico le fibre IIA tendono a ritornare naturalmente fibre veloci.

Le attitudini psicologiche

Così, come a livello fisiologico potenza e resistenza rappresentano spesso due dimensioni contrapposte che caratterizzano e differenziano le strutture fisiche di velocisti e maratoneti, anche le dimensioni psicologiche e le competenze mentali risentono di questa contrapposizione.

In termini generali si possono differenziare i due approcci prendendo in considerazione i livelli di attivazione o arousal che in psicologia indica una condizione temporanea di generale eccitazione del sistema nervoso, caratterizzata da un maggiore stato attentivo-cognitivo di vigilanza e di pronta reazione agli stimoli con conseguente aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, al fine di generare in tutto il corpo una condizione di maggiore allerta sensoriale, mobilità e prontezza di riflessi.

Si può affermare che le corse condizionate prevalentemente da un approccio tattico, che richiedono di calibrare le risorse fisiche e mentali sulle lunghe distanze, necessitano livelli di attivazione più bassi rispetto alle corse caratterizzate da potenza e velocità che richiedono livelli elevati di attivazione. L’importanza di ottimizzare lo scatto impone al velocista di raggiungere rapidamente elevati livelli di concentrazione, attenzione e prontezza per identificare il segnale dello starter e coordinare il gesto atletico esprimendo la maggiore potenza possibile.

Le corse di lunga durata richiedono di tollerare la fatica fisica e di saperla gestire nei momenti in cui si presenta in gara mentre in quelle di breve durata decisiva è l’abilità a gestire efficacemente l’impulsività e mantenere la concentrazione alta durante tutta la gara.

Due concetti fondamentali della psicologia della corsa che possono distinguere la struttura psichica del velocista da quella del maratoneta, sono la soglia di sofferenza, intesa come la fatica psicologica massima che l’atleta accetta durante la gara, e la capacità di sofferenza, che è il tempo che l’atleta riesce a reggere alla fatica massima.

Mentre nel velocista la soglia di sofferenza rappresenta un aspetto centrale per la qualità della performance, nel maratoneta la capacità di sofferenza può rappresentare la chiave per migliorare i propri risultati.

Anche le dimensioni di introversione ed estroversione, o di capacità di centratura sugli stimoli interni od esterni possono contribuire a chiarire questa diversità.

Un maratoneta ha bisogno di una notevole consapevolezza delle sensazioni corporee così da poter riconoscere e anticipare eventuali momenti critici durante la gara.

La concentrazione che inizialmente può essere poco orientata, con il progredire dello sforzo viene orientata all’ascolto dei segnali corporei in un costante monitoraggio dei parametri fisiologici.

Nel velocista il focus d’attenzione si esprime in un’escalation proiettata all’esterno, inizialmente al colpo di pistola, e costante in tutta la gara in un moto esplosivo verso il traguardo.

Ultima riflessione

Per chiudere questa breve panoramica sulle attitudini innate dell’atleta e dello sportivo in genere, possiamo dire che la mappa ereditaria ha un’indubbia valenza e peso in quello che faremo nella vita, ma l’orientamento fisico e psicologico, attraverso l’allenamento in tutte le sue forme, può spostare valori e percezioni mentali in modo stupefacente.

Con la collaborazione del tecnico Lorenzo Andreini e dello psicologo clinico Dottor Nicola Lazzarini.

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